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Teoria dello Squilibrio Chimico
di Antonio Sammartino    03/02/2022

È opinione comune che gli antidepressivi siano efficaci nella cura della depressione. Sarà vero?

Un interessante ricerca, documentata nel libro “I Farmaci Antidepressivi e il Crollo di un Mito. (Dalle pillole della felicità alla cura integrata)” evidenzia che gli antidepressivi che potenziano la disponibilità cerebrale di serotonina hanno un’efficacia clinica non distinguibile dal placebo, se non nelle forme più gravi di depressione, che tuttavia riguardano un’esigua minoranza di persone che assumono questi farmaci. 

Irving Kirsch, durante il suo lavoro di ricerca ha avuto accesso, tramite l’Atto di libera informazione (Freedom of Information Act) a diversi studi clinici che le case farmaceutiche avevano tenuto nascosti al pubblico e ai medici che prescrivono antidepressivi. 
La sua ricerca ha evidenziato che la depressione non può essere vista come un semplice squilibrio chimico nel cervello. Ha anche dimostrato la scarsa efficacia dei farmaci antidepressivi di ultima generazione, gli SSRI, confrontandoli con i placebo. 
Analizzando le ricerche disponibili, Kirsch ha evidenziato che la differenza tra queste molecole e il placebo è minima, per non dire nulla. Inoltre, gli antidepressivi presentano significativi effetti collaterali e sono solo marginalmente più efficaci dei placebo. In altri termini, gli antidepressivi funzionano, quando funzionano, perché danno speranza o perché il medico che li prescrive riesce a dare fiducia al paziente.
Ciò è comprensibile perché di fronte ad eventi che non si è in grado di gestire, si tende ad affidarsi, attraverso un processo di autoinganno psicologico, a prodotti e oggetti «magici» in grado di proteggerci e renderci forti. Non è quindi l’antidepressivo a far guarire, ma la qualità della relazione medico-paziente, che fa funzionare il placebo o l’antidepressivo. È quindi errato considerare la psicoterapia solo come un elemento accessorio al farmaco, il cui fine è di aiutare il paziente a “digerire” gli effetti collaterali dei farmaci. Quest’ultimi focalizzano l’attenzione sull’eliminazione artificiale del malessere soggettivo, anziché agire sui meccanismi che inducono la persistenza dello stato depressivo. Purtroppo, se la persona abbandona il farmaco, spesso ritorna ad essere depresso, con la differenza che ora ha sviluppato anche un senso di impotenza, perché si è convinto di non disporre delle risorse necessarie per fronteggiare con le proprie forze quello stato di profonda tristezza. 
I risultati della ricerca di Kirsch impongono un cambiamento radicale in direzione di un approccio integrato alla cura della depressione. 
La mente influenza il corpo e le convinzioni creano la realtà, perché ciò che la persona ritiene possibile o impossibile diventa ciò che si realizza o non si realizza. Infatti, se una persona è convinta di seguire una terapia efficace e ha fede nel suo potere curativo, migliora il suo quadro clinico fino alla possibile guarigione, anche se sta assumendo un finto farmaco. 
Diversi esperimenti clinici hanno dimostrato che spesso l’effetto placebo risulta più potente dell’effetto prodotto dai farmaci antidepressivi. In questi casi, i pensieri sono più efficaci di una sostanza chimica, perché la fede nella guarigione ha più importanza del farmaco che viene assunto. Maggiore è la convinzione che il rimedio funzionerà, tanto maggiore sarà il beneficio curativo. 
L’effetto placebo è provocato dal rilascio nell’organismo di sostanze terapeutiche che favoriscono i processi di auto-guarigione. Ovviamente i farmaci sono indispensabili quando funzionano, lo sono meno quando il loro inappropriato utilizzo, accentua il senso di sfiducia nelle proprie risorse. 
Le ricerche di Kirsch hanno anche evidenziato che gli antidepressivi, che potenziano la disponibilità cerebrale di serotonina (SSRI), hanno un’efficacia clinica non distinguibile dal placebo, se non nelle forme più gravi di depressione, che tuttavia riguardano una minoranza delle persone che assumono questi farmaci.
Uno studio effettuato presso l’University of Bristol, ha rilevato che due pazienti su tre non traggono completo giovamento dai farmaci. Un maxi studio pubblicato sulla rivista Lancet promuove in via definitiva la terapia cognitivo-comportamentale contro la depressione, nei pazienti che non rispondono ai farmaci.
Gli esperti hanno coinvolto un campione di pazienti depressi e in cura, che non avevano raggiunto apprezzabili risultati dopo una cura con gli antidepressivi, durata almeno 6 settimane. Metà del campione (gruppo di controllo) ha continuato ad assumere solo i farmaci, mentre l'altra metà oltre ai farmaci è stata sottoposta ad un ciclo di terapia cognitivo-comportamentale, un approccio che aiuta il paziente a cambiare il loro modo di pensare, mediante l’adozione di nuovi schemi mentali, al fine di fargli elaborare, in modo diverso, ciò che accade loro. 
Nei controlli effettuati dopo 6-12 mesi è emerso che coloro che avevano seguito la terapia, mostravano una riduzione dei sintomi depressivi del 50% (contro il 22% di quelli trattati con i soli medicinali); inoltre la terapia comportamentale in alcuni casi aveva reso possibile la remissione completa della malattia. Si stima che nel 2030 la depressione sarà la principale causa di disabilità nei paesi ricchi, per cui è importante sapere che la terapia comportamentale è un’efficace cura contro questo disturbo. 
Per meglio capire la teoria dello squilibrio chimico è utile conoscere alcuni aspetti basilari dei neuroni. 
Il cervello umano è costituito da circa 100 miliardi di cellule, i cui elementi fondamentali sono: i neuroni (le cellule nervose), le sinapsi (le connessioni), la guaina mielinica (la protezione) e i neurotrasmettitori (il linguaggio), o meglio le parole di un linguaggio molto complesso, in grado di fornire precise istruzioni, anche se costituito da solo circa 50 vocaboli. 
Una delle caratteristiche più interessante dei Neuroni è la loro capacità di realizzare un numero elevato di connessioni (mediamente diecimila) con le cellule vicine, al fine di creare un complesso circuito, che può corrispondere ad un sentimento, un concetto, un’idea o un impulso ad agire. 
I Neuroni, anche se diversi nella forma e nella dimensione, tutti condividono quattro zone strutturali: il Corpo Cellulare da cui partono due diversi tipi di ramificazioni denominate Dendriti e Assone. All’estremo opposto dell’Assone, rispetto al Corpo Cellulare, vi sono i Terminali Presinaptici. 
Il Corpo Cellulare (o Soma), è la struttura più importante in quanto contiene tutti gli elementi necessari alla cellula. Il Nucleo custodisce il DNA, il Reticolo Endoplasmatico, i Ribosomi necessari per la sintesi delle proteine e i Mitocondri per la produzione dell’energia. Il corpo cellulare coordina tutte le attività del neurone, provvede al metabolismo cellulare di base, necessario per la sintesi degli enzimi e delle altre molecole essenziali per mantenere in vita la cellula. 
Dal corpo cellulare parte un prolungamento denominato Assone che può raggiungere la lunghezza di circa un metro, la cui principale funzione è di trasmettere i messaggi dal corpo cellulare ai Dendriti dei neuroni adiacenti o ai tessuti del corpo (ad esempio i muscoli) attraverso i Terminali Presinaptici. 
Il corpo cellulare riceve le informazioni dagli altri neuroni attraverso i Dendriti. Rispetto all’Assone sono più corti e spessi, si ramificano in prossimità del corpo cellulare, da cui hanno origine. Hanno una superficie irregolare per la presenza di corte spine dendritiche che consentono il collegamento con i neuroni adiacenti. I dendriti, gli assoni e i Terminali Presinaptici, consentono al neurone di effettuare un elevato numero di interconnessioni, che di fatto realizzano quell’ammasso di corpi cellulari che costituisce il cervello. 
I neuroni si ammassano in modo da formare gruppi cellulari denominati Nuclei oppure si allineano fra di loro in modo da formare fogli di cellule denominate Strati che si dispongono tipicamente sulla superficie esterna del cervello, formando così la struttura anatomica denominata Corteccia Cerebrale. I Nuclei invece si trovano nella parte più interna del cervello, al di sotto della corteccia. 
I Neuroni attraverso i dendriti, raccolgono le informazioni relative alle variazioni dell’ambiente esterno e di quello interno all’organismo e le inviano lungo l’assone.
La trasmissione di un messaggio fra l’assone di un neurone e il dendrite di un altro neurone non avviene attraverso un contatto diretto, ma mediante il rilascio di sostanze chimiche diffuse in un microscopico spazio, denominato Sinapsi. Il segnale elettrico che attraversa l’assone, per superare questo spazio, si trasforma in messaggero chimico, noto con il nome di Neurotrasmettitore. Questi neurotrasmettitori, che si diffondono attraverso le sinapsi, possono essere catturati da specifici recettori presenti sulla membrana della cellula-ricevente, mediante un meccanismo descritto con la metafora della chiave che riconosce la serratura per la quale è stata costruita. Una volta catturato il messaggio dalla zona postsinaptica, il messaggio, da chimico viene riconvertito in impulso elettrico, denominato Potenziale di Azione ed inviato attraverso l’Assone, mentre i neurotrasmettitori che non sono stati catturati, una parte viene riassorbita, attraverso la zona presinaptica, dalla cellula che li ha emessi, la parte non riassorbita resta nello spazio sinaptico e viene distrutta da alcuni enzimi. 
Quando un segnale elettrico, detto Potenziale di Azione, raggiungere la zona presinaptica del neurone, provocando l’apertura di canali voltaggio-dipendenti, che lasciano entrare ioni di calcio nei terminali presinaptici, che causano una serie di eventi molecolari, al seguito dei quali si ha la fusione delle Vescicole Sinaptiche con la membrana di superfice del Terminale Presinaptico, aprendo così un foro nella membrana, attraverso la quale le vescicole rilasciano il neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. Questo processo di traduzione trasforma, il segnale elettrico, in un messaggero chimico. Nella cella ricevente, i neurotrasmettitori si legano ai recettori che si trovano sulla superficie della cellula postsinaptica. Questi canali trasmettitori-dipendenti trasformano i messaggeri chimici in segnali elettrici. I neurotrasmettitori (fra cui, i due più diffusi sono: Acetilcolina, Noradrenalina) non vengono rilasciati sotto forma di singole molecole, ma in blocchi che contengono ognuno circa 5000 molecole. La Noradrenalina agisce come modulatore di sensibilizzazione, mentre l’Acetilcolina accelera o rallenta la trasmissione sinaptica, che può avvenire in meno di mezzo millisecondo (sinapsi veloce) oppure in un secondo o poco più (sinapsi lenta). Il tempo del processo associato alla trasmissione sinaptica consiste: nel rilascio del neurotrasmettitore, nel riassorbimento e nel suo nuovo immediato rilascio. 
I neurotrasmettitori si suddividono anche in eccitatori e in inibitori; il primo aumenta le probabilità di scarica del neurone successivo, mentre il secondo riduce la probabilità di scarica del neurone che lo riceve. Ciò significa che l’attività di ogni singolo neurone dipende dall’influsso di decine o migliaia di altri neuroni, attraverso contatti sinapsi eterogenei nella loro natura sui quali agiscono diversi tipi di neurotrasmettitori. Il principale neurotrasmettitore eccitatore è il Glutammato, mentre quello inibitore è il GABA. (acido gamma minobutirrico) la cui funzione è di mediare l’attività dei neuro trasmettitori eccitatori. Il perfetto equilibrio di questi due tipi di neurotrasmettitori consente il funzionamento ottimale del sistema nervoso. Nel caso in cui si ha una prevalenza dei neurotrasmettitori eccitatori, non compensati da quelli inibitori possono verificarsi nell’individuo crisi epilettiche.
Nascita degli psicofarmaci. 
All’inizio degli anni ’50 si scoprì l’azione antitubercolare dell’ISONIAZIDE, un farmaco ricavato da residui di combustibili bellici. Successivamente, in un sanatorio per pazienti tubercolotici dell’epoca, si iniziò usare l’IPRONIAZIDE (farmaco derivato dell’isoniazide). Si notò che oltre a svolgere un’attività antibatterica, questo farmaco migliorava il “tono dell’umore”. Infatti, diversi pazienti, che in precedenza avevano rinunciato a vivere, iniziarono a manifestare sensazioni di benessere e vitalità. I primi risultati con questo farmaco furono forniti da Kline che aveva rilevato un 70% di miglioramento nel trattare 24 pazienti depressi (numero irrisorio per verificare la validità di un farmaco) che manifestavano anche sintomi psicotici (deliri, allucinazioni, Appiattimento dell'affettività, ecc.). Sull’onda di questa rivelazione, l’anno successivo 400.000 pazienti depressi iniziarono ad essere trattati con l’iproniazide (Marsilid). 
Negli anni che seguirono furono sintetizzati la tranilcipromina e la fenelzina. Si ipotizzò che l’effetto antidepressivo, fosse una risposta biologica al farmaco e che l’iproniazide inibiva l’ossidazione della noradrenalina e della serotonina nelle sinapsi, lasciando così più neurotrasmettitori disponibili nel cervello. A seguito di questa ipotesi, per la prima volta si usò il termine antidepressivo, aprendo così la strada ad una nuova classe di farmaci, in grado di curare la patologia depressiva. Occorre rilevare che in quel periodo il giudizio sull’efficacia del farmaco si basava sull’opinione dei singoli ricercatori. Infatti, non era stato ancora introdotto la prassi di verificare l’efficienza di un farmaco con un gruppo di controllo a cui viene fatto assumere un placebo. 
Nel settembre del ’57, durante il “II Congresso Mondiale di Psichiatria a Zurigo”, Roland Kuhn presentò alcuni suoi dati sulla efficacia antidepressiva di una nuova molecola nota come G-22355 (imipramina, un antidepressivo triciclico), con proprietà antipsicotica, che all’inizio era stata usata per la cura della schizofrenia. La relazione non suscitò l’interesse nei partecipanti, perché in quel periodo si riteneva che l’eziologia della depressione fosse il risultato di processi psicodinamici e di conflitti intrapsichici e che quindi l’intervento farmacologico poteva mascherare i reali sintomi della condizione depressiva. La sperimentazione dell’imipramina sui pazienti schizofrenici fu fallimentare, perché la maggior parte di loro peggiorò. Tuttavia, Kuhn aveva notato che alcuni pazienti, i cui sintomi psicotici erano probabilmente causati da una forte depressione, dopo alcune settimane dall’inizio della cura iniziavano a migliorare. 
L’iproniazide è quindi ritenuto un farmaco psicotropico (sostanza in grado di modificare lo stato psichico dei pazienti, al fine di normalizzarlo). È il primo MAOI (inibitori delle MAO), cioè il capostipite della prima classe di antidepressivi. Fa parte del gruppo degli inibitori della monoamine ossidasi. L'inibizione degrada le monoammine per ossidazione, ma non causa la loro distruzione, per cui i livelli di serotonina, noradrenalina e dopamina aumentano nel cervello. Quella dell’Iproniazide è essenzialmente un'azione di tipo agonista rispetto alle monoammine. Ciò genera un miglioramento della sintomatologia depressiva, aumentando i neurotrasmettitori che nella depressione maggiore sono diminuiti. Nel medesimo periodo, per le sue proprietà sedative, fu sperimentato l’uso dell'imipramina e si scoprì che era anche dotato di una potente attività antidepressiva. Dall’imipramina derivarono i triciclici (TAC), così chiamati in base alle caratteristiche della loro struttura molecolare. Anche questo farmaco agiva sulla serotonina e sulla noradrenalina cerebrale, ma con un meccanismo differente dall'iproniazide, tuttavia produceva il medesimo effetto. L'effetto antidepressivo è dovuto al blocco della ricaptazione della noradrenalina/serotonina nelle terminazioni nervose. A seguito di ciò si ipotizzò che vi fossero due modi per aumentare il livello dei neurotrasmettitori. Un modo era quello di inibire la loro distruzione, dopo che sono stati rilasciati nelle sinapsi. Questo è il modo in cui si ritiene funzionano gli IMAO. L’altro modo è di bloccare il riassorbimento della noradrenalina/serotonina. 
L’uso dell’iproniazide venne approvato nel 1958. Fu ritirato dal mercato USA nel 1961 perché causava ittero ed esercitava un’azione tossica sui tessuti renali (nefrotossicità). Inoltre contribuiva alla comparsa di ictus e problemi cardiaci. Nel 1964 venne ritirata per alcuni anni anche la tranilcipromina, perché causava l’insorgenza di crisi ipertensive.

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